Massimo Iosa Ghini: “il vero progetto sostenibile unisce etica ed estetica, ecologia e desiderio”

CasaOggiDomani incontra… Massimo Iosa Ghini, fondatore dello studio di progettazione Iosa Ghini Associati. Architetto e designer tra i protagonisti del made in Italy, Iosa Ghini racconta il valore del disegno, l’eredità del Bolidismo, l’identità del progetto italiano e la sfida di coniugare sostenibilità ed estetica. Un dialogo tra visione, rigore e cultura del progetto.

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Massimo Iosa Ghini, “il vero progetto sostenibile unisce etica ed estetica, ecologia e desiderio”

Massimo Iosa Ghini, architetto e designer entrato nei libri di storia del progetto made in Italy, lavora da sempre a scale diverse, passando dall’arredamento all’architettura senza tradire un originale stile personale e soprattutto il rigore metodologico che sin dagli esordi contraddistingue il suo impegno.

Seguace delle avanguardie degli anni Ottanta del secolo scorso, che hanno dato una svolta al panorama creativo italiano e non solo – come fondatore del movimento Bolidista e partecipante del gruppo Memphis –, con il suo studio Iosa Ghini Associati, aperto nel 1990 a Bologna e con sedi oggi anche a Milano e a Miami, ha indagato ogni possibile aspetto progettuale, ricevendo una serie di importanti riconoscimenti internazionali e diventando Ambasciatore del design italiano.

Tra le tante esposizioni incentrate sul suo lavoro, nel 2013 la Triennale di Milano gli ha dedicato la mostra monografica “Massimo Iosa Ghini. Architetto e designer”, ricco racconto del suo percorso professionale fino a quell’anno, da cui abbiamo voluto prendere in prestito i titoli delle varie sezioni per farci raccontare la sua storia progettuale. E i frutti di una carriera da sempre incentrata su concetti, come adattamento alle trasformazioni del contesto e sostenibilità, che oggi sono condivisi.

Indice degli argomenti

Architetto e designer tra i protagonisti del made in Italy: a colloquio con Massimo Iosa Ghini

Disegnare

Che importanza ha avuto per lei, agli esordi, la capacità di rappresentare un’idea con una semplice matita?

Disegnare, per me, è sempre stato un atto primario, istintivo. Agli esordi, la matita era l’estensione diretta del pensiero: un modo per trasformare l’idea in forma, quasi senza mediazioni. Era la maniera più immediata per dare corpo all’intuizione, per raccontare uno spazio, una sensazione, un’energia. Non si trattava solo di rappresentare, ma di pensare attraverso la mano.

E che ruolo ha eventualmente, ancora oggi, il disegno nella sua vita, nell’era della tecnologia?

Ancora oggi, nonostante le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale siano diventati strumenti straordinari, continuo a disegnare. Il disegno a mano libera ha un valore che va oltre la precisione: è emotivo, personale, atto di vitalità. È uno strumento che ci mette in relazione diretta con il nostro immaginario, ci costringe a scegliere, a sintetizzare, a essere chiari.

Lo considera uno strumento indispensabile per le nuove generazioni di progettisti?

Per le nuove generazioni di progettisti credo che il disegno non sia solo utile, ma indispensabile. Non come nostalgia di un passato analogico, ma come pratica formativa. Disegnare allena la mente a vedere e la mano a pensare. Anche nell’epoca della realtà virtuale e dell’intelligenza artificiale, è dalla qualità del pensiero che nasce un buon progetto; e il disegno è ancora oggi uno dei modi più efficaci per coltivarlo.

“Il vero progetto sostenibile unisce etica ed estetica, ecologia e desiderio”: a colloquio con Massimo Iosa Ghini
Interni di una penthouse a Mosca

 

Bolidismo

Il manifesto del Bolidismo parlava di “adattamento psicologico-emotivo alle innovazioni”, una dote oggi più che mai necessaria. Come ha coltivato questa attitudine nel tempo, per affrontare le sfide del progetto contemporaneo?

Il Bolidismo nasceva da una spinta vitale, da un desiderio di superare l’immobilismo e le certezze statiche del postmodernismo. Quella “capacità di adattamento psicologico-emotivo” era, e resta, una chiave di lettura del nostro tempo: un’attitudine al cambiamento, al movimento continuo, all’anticipazione.

Nel mio percorso, l’ho affinata vivendo il progetto come un campo aperto, mai chiuso in una sola disciplina. Ho ricercato contaminazioni, mi sono lasciato attraversare dalla tecnologia, dall’arte, dalla cultura industriale, senza mai perdere lo spirito emotivo del fare design.

Oggi, in un mondo frammentato, iperconnesso, l’adattabilità non è più solo un vantaggio, ma è necessità. Credo che l’approccio bolidista, con la sua visione dinamica e ottimista del progetto, sia ancora molto attuale: ci insegna a progettare il movimento, in simbiosi con la natura, più che la forma razionale, fissa. Ci insegna ad essere protagonisti del cambiamento, non solo spettatori, perché siamo fatti per cambiare.

Bolidismo
Progetto Design Club Collection di riqualificazione di un edificio storico a Bologna per Design Club Real Estate, per ricavare serie di appartamenti arredati con pezzi iconici dei grandi maestri del disegno industriale e dotati di impianti ad alta efficienza

 

Parlare con il mondo

Il suo lavoro spazia dall’interior design all’architettura, dal disegno industriale all’automotive, in chiave sempre internazionale: come affronta questa multidisciplinarietà?

Per me progettare è sempre stato un atto di comunicazione: parlare con il mondo appunto. Che si tratti di un interno, di un edificio, di un oggetto o di un’automobile, il punto di partenza è sempre lo stesso: l’idea che forma, funzione ed emozione in equilibrio tra loro.

Affronto la multidisciplinarità con la stessa attitudine con cui si affronta un viaggio: con curiosità, rispetto per le disuguaglianze, ma anche con un’identità forte. Cambia la scala, cambiano i vincoli, ma il pensiero progettuale rimane coerente.

E quale è il fil rouge che lega progetti a scale così differenti, apprezzati anche da mercati molto diversi?

Il fil rouge, se devo individuarne uno, è l’idea di “design come cultura del progetto”: ogni lavoro è una sintesi tra estetica, tecnologia e visione. Che sia un museo a Bologna, una lounge a Miami o una collezione di design in Giappone o per il Salone del Mobile, cerco sempre di portare un linguaggio che sia empatico, leggibile, capace di creare connessioni tra le persone e lo spazio.

Essere internazionali non significa adattarsi a tutto, ma saper leggere i vari contesti, portando qualcosa di autentico. È lì che il progetto diventa universale.

Parlare con il mondo
Interni di una villa monofamiliare

 

Interpretare la quintessenza italiana

Le sue realizzazioni sono da sempre simbolo del made in Italy e della qualità – estetica, produttiva, creativa. Come si affronta ogni volta un progetto con questa “responsabilità” nei confronti del resto del mondo?

Portare con sé il valore del made in Italy è una responsabilità che ho sempre sentito, anche come ambasciatore per conto del Ministero e dell’ICE, ma che vivo anche come un privilegio. L’Italia ha una tradizione unica nel mondo: una cultura del bello e del ben fatto che unisce pensiero umanista rinascimentale, capacità artigianale e innovazione industriale. Ogni volta che progetto, che sia in Italia o all’estero, cerco di interpretare questa eredità in chiave contemporanea.

La sfida è mantenere coerenza e qualità, senza cedere alla tentazione della superficialità. Il made in Italy non è uno stile, è un approccio: significa cura del dettaglio, ricerca della bellezza autentica, rispetto del processo produttivo. Questo vale per un mobile come per un edificio: l’obiettivo è sempre cercare qualcosa che duri nel tempo, che sia significativo.

Quali sono oggi, secondo lei, le potenzialità del made in Italy?

Oggi il made in Italy ha ancora un potenziale enorme, proprio perché il mondo cerca identità, autenticità e contenuto. Ma dobbiamo continuare ad evolverci, investire nella cultura del progetto, nella sostenibilità, e nella formazione delle nuove generazioni. Solo così l’eccellenza del made in Italy potrà continuare a parlare nel futuro.

Interpretare la quintessenza italiana
Termoarredo Brasilia di Caleido

 

Interpretare la quintessenza italiana
Divano Big Mama di Moroso

 

Sostenibile ma bello

La sostenibilità è da tempo una delle chiavi di volta del suo lavoro. Pensa che, da quando ha iniziato ad affrontare lei il tema ad oggi, si siano fatti realmente passi in avanti nel mondo del progetto e della produzione industriale?

La sostenibilità, per me, non è mai stata una moda, ma una responsabilità culturale. Ho iniziato ad affrontare il tema in tempi in cui non era ancora al centro del dibattito. Oggi, fortunatamente, è diventata una priorità condivisa, almeno a parole. Ma se guardiamo alla realtà dei fatti, i veri passi in avanti sono ancora discutibili. Serve più coerenza, più coraggio e una visione sistematica.

Quale ritiene sia il modo migliore oggi per affrontare la questione da parte di un designer?

Credo che il miglior modo per un designer di affrontare la questione oggi sia progettare pensando al ciclo di vita completo dell’oggetto o dell’architettura. Materiali, processi, produttivi, logistica, uso e fine vita: ogni fase va considerata come parte del progetto. Non si tratta solo di “usare molta plastica”, ma di cambiare mentalità.

E come convivono estetica ed ecologia?

E naturalmente, tutto questo deve convivere con la bellezza. Non possiamo accettare che sostenibile significhi “brutto”. L’estetica è un valore, perché emoziona, comunica, crea relazione. Il vero progetto sostenibile è quello che riesce ad unire etica ed estetica, ecologia e desiderio. Solo così possiamo parlare davvero di un futuro possibile.

Iosa Ghini Associati
Massimo Iosa Ghini

Iosa Ghini Associati

Con sedi a Bologna, Milano, Miami, lo studio Iosa Ghini Associati riunisce architetti, ingegneri e designer di diverse nazionalità, occupandosi sia di grandi realizzazioni residenziali, commerciali, terziarie, culturali, infrastrutturali, sia di progetto degli interni e di design. Carbon Neutral dal 2019, ha ricevuto svariati premi internazionali.

Foto in apertura: Sulla sinistra, il designer Massimo Iosa Ghini, sulla destra, Tavolo Gutta di Natuzzi. by Massimo Iosa Ghini

 





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